Riflessioni nostalgiche
''La politica è una cosa molto seria''
mi diceva mio padre. L'imperfetto qui s'impone non perché mio padre non sia più
in vita, ma perché oggigiorno è diventato molto arduo individuare contesti nei quali si possa parlare di politica. Forse che
anche la politica, al pari di altre esperienze umane, è chiamata a fare i conti
con un nichilismo tecnico ormai imperante in tutta la società. Gli esempi, d'altronde,
non mancano. Quando ero piccolo mi capitava di assistere ai comizi di piazza a ridosso delle elezioni politiche o amministrative che fossero
(anche se in quelle politiche c'era maggiore fermento), mi ci portava mio padre
all'epoca militante di partito.
Venivo attratto, in
quelle circostanze, dal fervore dei cittadini che si eccitavano attorno ad un
discorso del leader del partito soprattutto quando questi affrontava argomenti
di una certa pregnanza civile, come ad esempio il lavoro. Il lavoro era sempre
un argomento presente nei discorsi, una questione sempre all'ordine del giorno,
un diritto per il quale valeva la pena ''sporcarsi le mani'', combattere, perché
il lavoro è l'unica dimensione esistenziale che fa di un soggetto un uomo.
Lavoro negato, esistenza negata. La classe dirigente di allora (parlo degli
anni 70, per intenderci) conosceva la centralità della dimensione occupazionale
perché aveva una maggiore consapevolezza delle realtà sociali e territoriali;
conosceva il ''caro vita'', la mancanza di reddito; aveva
cognizione dell'aspetto culturale della società e non pensava che la cultura
servisse solo per ''mangiare''. Su codeste questioni i partiti decidevano, e si impegnavano, di confrontarsi. Si trattava, poi, di
prospettare soluzioni diverse a seconda delle ideologie (nel senso nobile del termine) cui gli schieramenti politici facevano
riferimento. I cittadini, dal loro canto, decidevano secondo i rispettivi
orientamenti ma comunque consapevoli, in un caso o nell'altro, di esercitare un
voto maturato a fronte di tematiche che riguardavano
il loro futuro, la loro esistenza come soggetti appartenenti ad una società
nella quale poter iscrivere la loro progettualità. Ovviamente anche allora c'erano
scontri, anche molto violenti, ma essi venivano condotti sempre in nome di un diritto da salvaguardare, di una disuguaglianza
da livellare. In quegli scontri c'era, in definitiva, l'evidenza di una asimmetria tra chi gestiva ed esercitava il potere e chi
invece a quel medesimo potere veniva soggiogato.
La campagna elettorale (oggi
si chiama propaganda, che risuona un po' come pubblicità, come se l'agenda
politica fosse un inventario di un grande supermercato in cui si scambiano beni
di natura diversa) veniva condotta su tematiche che
interessavano tutti: le famiglie, che avevano interesse ad aumentare il loro
benessere attraverso il conseguimento di redditi adeguati; le imprese, che spingevano
la pretesa affinché i loro ricavi venissero assoggettati ad una imposizione
fiscale minore in modo che la produttività (termine oggi molto caro al
dibattito economico planetario e italiano in particolare) se ne potesse
avvantaggiare. L'atto di nascita dei partiti e, dunque, la loro azione era
riconducibile a codeste ''policy issues''. Sorprendono oggi le modalità con cui vengono condotte le propagande elettorali. Sembrano scomparse le
fratture sociali cui prendeva avvio l'azione dei partiti, proprio quelle ''policy
issues'' attorno alle quali si aggregavano gli schieramenti partitici ed in virtù delle quali nasceva e si portava a compimento la competizione
elettorale. Oggi, invece, trovano cittadinanza altri motivi: di illegalità, di disuguaglianza, di partigianeria. Motivi che vengono dissimulati attraverso linguaggi denigratori e
fobici cui l'offesa e la paura ne costituiscono la base. Ed ecco allora che
infondere il timore che una città come Milano diventi una realtà islamica o,
peggio ancora, una ''zingaropoli" (termine che spesso viene usato come sinonimo di rom), diventa la cornice nella quale iscrivere una
propaganda elettorale che cerca di persuadere un elettorato poco informato,
tutt'altro che critico e, soprattutto, culturalmente preoccupato della diversità.
Dunque: mentre una volta la competizione elettorale si svolgeva in vista di
diritti da riconoscere a tutti e delle disuguaglianze da superare, oggi si ''gareggia''
per affermare i diritti (se così possiamo definirli) di pochi o della
maggioranza politica, comunque, se così intesa, una maggioranza oligarchica,
per affermare le disuguaglianze invece che le uguaglianze, per affermare una
subcultura dell'impunità, che è figlia dell'altra subcultura dell'illegalità
che la classe dirigente cerca di combattere, sbandierando ad ogni occasione tutti gli sforzi affrontati per scongiurarla. A cosa serve tutto
questo? A conseguire
ed a mantenere il più a lungo possibile il potere. A nient'altro.
Sorprende anche che un'istituzione
come la Chiesa non riesca a prendere le dovute, definitive distanze rispetto ad
azioni e pensieri (il pensiero è molto peggiore delle azioni) che si
riverberano su tematiche ad essa essenziali: la
famiglia, l'uguaglianza, la carità, la diversità, l'amore per il prossimo. E mi
fermo qui. Sorprende perché quando si è trattato di far sentire la sua voce, la
Chiesa, su una questione che racchiudeva in sé una accezione
alquanto politica, come quella del caso Englaro, non ha risparmiato interventi.
Gli zingari, gli extracomunitari, i diversi non sono forse anch'essi figli di
Dio? Va riconosciuto, tuttavia, che qualche prelato ha avuto il coraggio e la
coscienza di prendere le distanze da tutto questo ''ciarpame'', ma non basta: la
posizione della Chiesa come istituzione e, soprattutto, come portatrice del
messaggio di Cristo non appare, nell'attuale contesto socio-politico, unitaria.
La politica è veramente qualcosa di
molto serio e, come il diritto, essa dovrebbe guardare in alto, oltre il
particolare, e cercare di mettere insieme, di aggregare e non di disaggregare,
capire che la diversità è una risorsa per la crescita culturale di tutta l'umanità
e non un ostacolo; capire che la diversità è un'affermazione di possibilità
attraverso le quali la nostra esistenza si concretizza e si progetta. Ovviamente questa alterità, in quanto
compresa in un contesto sociale organizzato, deve, per poter sopravvivere,
assoggettarsi alle regole della convivenza, alle regole la cui osservanza rende
i soggetti autenticamente liberi.
Leonardo Miucci
Avola, 23 maggio
2011
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Per ''Miele estremo''
di Giovanni Stella
Uno
scritto di memorie che ti prende l'anima, come ''gocce di miele estremo'', te
l'avvolge in un corale di vite e di sogni, che sono le voci, i profumi, le
immagini colorate di questa variegata umanità, costretta a vivere al fruscio della clessidra...
Policromo affresco evocativo,
liturgia di sogni
e di memoranda vita,
di affetti incarnato
fra le intense pieghe del cuore
gaudioso
e di virtù impresse,
nell'intimo gocce di miele estremo
disciolto in un impartibile amore,
di chiara linfa greggia
percossa è l'anima antica
dall'impareggiabile destino.
Pachino, 18 maggio 2011
Giovanni Stella, Miele estremo, 2010, 16°, pp. 270
Libreria Editrice Urso, Collana Omnia n. 3, € 13,00 - ISBN 978-88-96071-33-5 |
Ad un certo punto della serata Ciccio Urso ha letto il ''passaggio'' tratto da ''Le città invisibili'' di Italo Calvino:
"L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n'è uno è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.
Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno e farlo durare e dargli spazio".
Ho utilizzato spesso quanto è stato scritto come ''citazione'', poiché condivido il pensiero e cerco di mettere in pratica il secondo modo anche se è il più difficile da attuare.
Ieri sera, riascoltando Calvino, mi è venuta in mente subito la frase di Aristotele : - Libero è chi ha legami, responsabilità verso gli altri, obblighi verso la comunità nella quale vive. E' schiavo invece colui che non ha legami, che non ha un proprio posto nella città e che per conseguenza può essere utilizzato da altri e in diversi modi.
Anche questa frase è da me condivisa per la collimazione, a mio parere, con quella di Calvino.
E' stata una bella serata.
Paolo Pantano
(Foto di Corrado Bono)
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